lunedì, maggio 30, 2011

Contingenze elementari (terza parte)

"Come ti dicevo, trattandosi di mia sorella non intendo andare alla polizia....almeno finché non avrò prove certe."

Continuando a giocherellare con il gioiello d'ambra che chiudeva la collana bevve un altro sorso.
Era affetta da alcuni comportamenti che avrebbero fatto immediatamente fatto pensare all'insicurezza, se non avesse avuto una voce tanto strana, così profonda e priva d'accento.

"Il killer di mezzogiorno potrebbe anche non essere lei, o almeno lo spero. Non lo so, per quanto mi riguarda penso di aver fatto bene a parlartene, altrimenti non sarei proprio venuta in primo luogo. Riconosco però che sbatterti un sospetto simile in faccia chiedendoti di tacerne non sia un comportamento che lascia molto spazio alle reazioni "comuni". Tutto questo giro di parole per spiegarti che sono disposta a pagare, sia per fare quanto ti chiedo che per disinteressartene se decidessi di non accettare. L'amicizia che mi lega a tua sorella non lo rende un favore personale, ecco."

I soldi gli facevano indubbiamente gola, e non c'era bisogno di essere nel suo appartamento per ricordarglielo. Il lavoro che faceva gli garantiva una certa libertà, ma non gli dava propriamente i mezzi con cui goderne. Si domandò quanto avrebbe potuto offrire.

"Capisco, ma mi sfugge il modo in cui pensi di quantificare il mio...compito. Non c'è ragione di credere che se i delitti finissero sarebbe merito mio. Il fatto che tua sorella scelga spesso i miei sogni potrebbe non significare nulla. I delitti potrebbero anche smettere per un altro motivo, a parte il fatto che potrebbe non essere lei. Inoltre credo che la vita non sia propriamente regolata da quello che si sogna, potrei anche non riuscire a trasmettere quello che mi chiedi."

Lei cominciò ad annuire già a metà del suo discorso, un altro sintomo dell'impazienza che invece mancava alla sua voce. Forse era solo un'urgenza fisica, come il bisogno di andare in bagno.

"Sono d'accordo, anche io ho pensato la stessa cosa. Poi però mi sono detta: questa cosa potrebbe essere come sponsorizzare la fine dei delitti. Immaginalo come una pubblicità: chi sceglie cosa fare alla fine è il consumatore, ma se non gli vengono presentati il prodotto e le sue qualità non è nemmeno a conoscenza dell'esistenza di una scelta.

D'altro canto, questo sottile condizionamento attraverso i sogni è solo una delle strade che intendo perseguire. Tutte sono abbastanza discrete, ma immagino che tra tante qualcuna possa schiacciare i tasti giusti e perlomeno chiarire se il sospetto che nutro è legittimo o meno. Inoltre, ci sarò io ad osservare l'evolversi della situazione da vicino, se le cose cambiassero potrei coordinare tutto di conseguenza. Intendo investire tutta me stessa in questa cosa."

Spogliato delle connotazioni inquietanti della cosa come il sospetto d'omicidio era in definitiva un lavoro facile. Il successo o il fallimento della cosa non dipendeva da lui, la sospettata non sospettava nulla, non sapeva nemmeno che lui e la sorella si conoscessero.

Sentendosi abbastanza al sicuro accettò.

venerdì, maggio 27, 2011

Contingenze elementari (seconda parte)

Quando ebbe finito di lavorare accese la televisione. Sullo schermo si scontravano i personaggi di un film d'azione dei primi anni duemila, impeccabili come manichini d' alta moda, abbronzatissimi senza scottature. Benché non riuscisse a ricordarne il titolo sapeva di averlo già visto, una qualche replica la domenica pomeriggio. Era troppo pigro per cercare il titolo, e troppo distratto per accorgersi di non sapere in quale giorno della settimana si trovasse; magari era proprio una domenica pomeriggio.

Il punto era che la natura stessa delle sue routine era sregolata: sveglio quando gli altri dormivano, quindi potenzialmente mai. C'è sempre un cliente per un venditore di sogni, diceva qualche slogan di moda anni prima. La cosa gli ricordò con piacere il sogno che aveva trovato nella scatola dei cereali: il coupon doveva ormai essere perso in uno dei sacchetti che aveva ordinatamente messo in fila davanti alla porta di casa prima di mettersi all'opera.

Aprì il frigo, cercando qualcosa da mangiare. Aveva praticamente finito tutto lavorando.
Decise che il giorno dopo avrebbe comprato qualcosa di croccante e della pasta all'uovo, e poi magari avrebbe fatto scorta di succo, variando il mango con pesca e albicocca.

Era di nuovo seduto sul divano, guardando lo schermo senza vederlo, intento in pensieri oziosi riguardanti un domani che invece, lentamente, già sorgeva al di là delle tapparelle abbassate. Un grosso sole obeso spuntava da qualche parte, per battere i suoi raggi rarefatti dai vapori marini contro il pallido rosa del caseggiato.

Indagò come sempre i commenti a caldo sul sogno che aveva composto, prima di andare a dormire. Era piaciuto, ma sapeva che i primi a recensire erano spesso esaltati, entusiasti cronici più emozionati per essere i primi a parlarne che per il sogno stesso. O almeno era così per i prodotti degli aspiranti artisti come lui, che producevano esperienze oniriche a livello artigianale, lontani dai grandi componimenti delle società dedicate, compagnie che ogni notte raccoglievano milioni di sognatori.

Tra cui lui stesso, che caricato un grande classico decise di andare finalmente a dormire.
Lei suonò il campanello tre volte, quando ormai si trovava nel profondo del riposo.
Spiegò brevemente in un biglietto chi era, aggiungendo che sarebbe tornata, e lo fece scivolare sotto la porta, immaginando che non avrebbe avuto senso lasciare altri messaggi in una segreteria che poi non avrebbe ascoltato.

Il nuovo pezzetto di carta trovò scomodamente posto tra i cumuli di spazzatura.

domenica, maggio 22, 2011

Contingenze elementari (prima parte)

Cercò la propria immagine dentro la vetrina, senza trovarla.
L'unica cosa che vide fu il sacchetto con il prosciutto crudo e il succo di mango, il resto erano solo pile di libri, mazze da golf e la chitarra che aveva attirato la sua attenzione.

Rientrato in casa, non riusciva a togliersi dalla mente l'idea di non saper suonare uno strumento. Il suo percorso musicale era stato tortuoso, ma mai veramente impegnativo. Aveva provato qualcosa dopo aver smesso con il piano, da bambino, ma adesso faticava addirittura a ricordare quali fossero gli strumenti precisi con cui si era misurato.

La chitarra era comunque un desiderio nuovo, immediato, una voglia di imparare ad estrarne un suono nata nel momento in cui aveva visto il cartellino del prezzo appeso ad una chiave.
Acceso lo schermo trovò una playlist di virtuosi della chitarra, da ascoltare mentre intanto riordinava l'appartamento.

Era in effetti un pò di tempo che non metteva a posto. Dopo essersi occupato della carta dei quotidiani e degli scontrini che inspiegabilmente faticava a buttare via, cominciò ad interessarsi ai bicchieri e alle altre stoviglie che giorno dopo giorno avevano lasciato la credenza per stabilirsi chissà dove.

Per qualche motivo che non gli riuscì di spiegarsi, fare i lavori di casa ascoltando la chitarra non era opportuno. Il suono sembrava non solo dissociato dai suoi pensieri, ma anche da quello che stava facendo. Immaginò qualcosa a proposito del disordine, ma sapendo che nessuna spiegazione sarebbe stata sufficiente, cambiò semplicemente musica facendo partire Open Sesame di Freddie Hubbard.

Ramazzando la camera da letto, strofinando forchette incrostate da giorni, si accorse che l'atmosfera cominciava ad avvicinarsi ad un'identià compiuta, come se fino a quel momento i suoi gesti non fossero stati sincronizzati con l'effetto che producevano.

Finito il lavoro si versò un bicchiere di succo. La notte si avvicinava a grandi falcate, era tempo di preparasi per andare in onda.

sabato, maggio 14, 2011

Caos Calvo

Se io fossi Nanni Moretti la vita sarebbe indubbiamente più facile.
Anche se voi foste Nanni, ve la spassereste molto di più, non siete d'accordo?
Con calma. Forse potrebbe trarre in inganno, ma questo post NON è una paternale.

Senza aggiungere che, per la naturale predisposizione delle madri a rimbrottare più dei padri, subire una maternale è oggettivamente molto più frequente di una paternale, indi per cui dovremmo rifiutarci di utilizzare nel linguaggio comune un unico sostantivo per indicare due concetti differenti, anche se soltanto per il soggetto agente, finendo così per atteggiarci, volenti o nolenti, in modo qualunquemente sessista; perchè non alternare, a seconda dei generi, i due termini? Ma se tenessimo presente questa degna intuizione, e Baro un giorno mi dicesse "ora ti faccio una maternale lunga così", con il solo intento di dimostrare che come le donne dicono paternale allo stesso modo gli uomini possano dire maternale, nessuno capirebbe nulla ugualmente, proprio come nei suoi post; ed è per questo che sono portato a credere che la collettività abbia scelto paternale per entrambi i sessi, piuttosto che maternale, per la più facile associazione con il concetto di Lunghezza, per una maggiore chiarezza della elementare composizione sostantivo-aggettivo : una lunga paternale suona meglio di una lunga maternale. E' fisiologico, è antropologico : forse è dura da accettare, ma attualmente così stanno le cose; l'ennesimo sbocco del merchandising delle parole, del ragionare per associazione di idee, del diktat televisivo impartito da non so quale esperto di telecomunicazioni operante nell'ombra? "Vuoi usare il termine paternale nel tuo spot? Mettiamoci uno sfondo bianco, con a lato un enorme membro che si genoflette su sè stesso e, a scapito di una parte, peraltro rinunciabile, della propria virilità, impartisce moralità in pillole." Tremendo.
Tuttavia, se noi decidessimo di scendere a questo compromesso linguistico, se accettassimo turandoci il naso questo patto col diavolo, a Baro, a cui difficilmente le masse associano il concetto di lunghezza, converrebbe diversamente utilizzare, per risultare più chiaro su iPiroga, il termine maternale.

Ma dove eravamo rimasti?
Ah sì, io sono Nanni Moretti.
Altrimenti avrei semplicemente detto che Baro ce l'ha corto.

venerdì, maggio 13, 2011

la debacle di Damocle

Se indossate un orologio, un bracciale, un gioiello, un qualcosa e siete intenzionati a continuare a leggere, vi prego di togliere tutto.

Vi parlo come se parlassi a me, ed io non ne porto. L'immedesimazione non sarebbe altrettanto efficace.

Quando è primavera mi sembra assurdo che ci sia stato l'inverno. Mi sembra impossibile che esista e anzi, dubito che sia esistito.

Poi mi tolgo le cuffie e mi concentro sul disgelo. Immaginatevi stesi a letto. Non nel silenzio, in un ambiente che non è tranquillo e non invita alla riflessione. Intorno a voi, al di là della finestra chiusa, della porta che dà su scale con luce temporizzata, nel bidone della rumenta e negli interstizi delle piastrelle sta nascendo la vita.

Si sparge affamata, come un ferito che cerca l'acqua, un assetato che smania per il soccorso, và dove non è ben accetta e portando con sé solo se stessa.
Allontanatevene.
Dal letto dove siamo distesi possiamo alzarci, ma non è che con l'immaginazione che vogliamo muoverci. Andiamo fuori in strada.

Come non è difficile immaginare una cosa semplice come essere stesi a letto non vi sarà difficile uscire di casa, come se lo faceste davvero, con la mente. Solo non dovete aprire le porte, o almeno non siete tenuti a farlo. L'immaginazione fa quello che vuole, ed io per esempio cerco di immaginare nel modo più fedele alla realtà. Apro la porta e scendo le scale.

Siamo in strada, presumibilmente sotto i piedi abbiamo delle scarpe, quindi possiamo immaginare tutti quanti di sentire contro le piante la medesima cosa: una suola.
Questo per sottolineare come le catene che ci costringono negli automatismi siano in realtà le stesse per tutti, ma lasciamo perdere le suole.

A questo punto, l'immagine comincia a vacillare. Dove andremo adesso, dovendo immaginare tutto quello che ci circonda? Non lontano. Troppi eventi per calcolare una realtà realistica, troppi ricordi da concordare per formare un'immagine veritiera della via in cui tratto tratto ci troveremo. Un tamarro che passa in motorino, se lo immagino con le scarpe viola poi non gliele potrò cambiare. E se immagino una merda di cane dovrò poi cercare di evitarla.

Facciamo attenzione a quello che immaginiamo, piuttosto non complichiamo le cose. Siamo in strada, c'è un meteo amichevole che non ha bisogno di essere studiato per essere percepito, guardiamo fissi davanti a noi.
Ora, è il momento di immergersi.

Viaggiare sopra la terra, anche volando, non sarebbe possibile per i motivi elencati. Non per arrivare concentrati dove vogliamo. Finiremmo per perdere il filo o per perderci in qualche cesellatura troppo raffinata della realtà che cerchiamo di ricreare.
Immergiamoci.
Nel marciapiede, nell'asfalto, nella terra. Superiamo le varie gettate, la ghiaia, la terra battuta, le tubazioni. Siamo arrivati ormai al collo, al naso, alle ciglia.

Ora siamo al buio. Possiamo viaggiare finalmente all'oscuro del luogo in cui ci troviamo. Se temete di incappare in qualche cantina, in un bunker, scendete ancora: è uguale.
Siamo come animali, come struzzi con la coscienza annegata in un palmo di terra, se non vediamo è perché non abbiamo intenzione di vedere.

Ma ora è il momento di partire, viaggiare verso il luogo della nostra riflessione. Propagate il moto, sentitelo, camminate o fatevi spingere dalle montagne russe, l'importante è il senso di moto, stiamo andando in un luogo piuttosto lontano.

[...]

Siamo arrivati. Intorno a noi tutto è ancora buio, sentiamo soltanto di esserci fermati.
Comincia la risalita, veloce o istantanea non importa, sorgiamo verticalmente come ascensori intangibili. Non aprite gli occhi, per quanto ne sappiamo siamo ancora annegati in kilometri di pietra, oppure potremmo aver già superato la stratosfera. Ma questo non ci interessa, tanto più che non possiamo saperlo: ad occhi chiusi percepiremmo anche la luce del sole, ma non sono i nostri occhi ad essere chiusi. Non è il buio delle palpebre quello che osserviamo.

Anzi, che non osservo più.
Apro gli occhi: sono ad alta quota, con i piedi immersi in qualche particolarissima, percepibile suola, ma il mio sguardo non può volgersi a vedere cosa indosso, non può muoversi affatto.

Guardo la montagna di fronte a me, non posso fare altro.
Un grande sole giallo la illumina, a picco sopra di lei, da qualche parte dove non posso vederlo.
La avvolge come le lampade irradiano i fiori di serra, disperatamente intenzionato a farla sbocciare, prima o poi.

Ma guardando meglio mi accorgo che la roccia non è immobile: il ghiaccio che la ricopre un pò la fa sudare e un pò la ammanta di fumo.

L'inverno non è propriamente finito: arriva il disgelo.

venerdì, maggio 06, 2011

cucinare il cibo per la mente

Il giorno dopo non fu poi traumatico come avevo creduto: senza sveglia, caffè, focaccia, facebook, altro caffè.
Qualcosa non era cambiato.

Oppure qualcosa non era ancora cambiato.
Il non capire che cosa stesse o non stesse accadendo mi infastidiva più del prosciutto cotto e di quei libri in cui alcune parole sono scritte in grassetto ed altre no.

Poi mi guardai il taglio sul dito.
Per quanto stupido era uscito un sacco di sangue.
Era fuggito.
(Su wikipedia scopro che un globulo rosso vive 120 giorni. Cosa si vede del mondo microscopico in 120 giorni?)

Trovi una via d'uscita, ti schianti al suolo o su un capo d'abbigliamento preferibilmente chiaro, in un ambiente acido o basico, chissene frega, comunque ostile. Cosa puoi volere che io non ti garantisca? Ingrato.

E mentre mi succhiavo il dito ho capito che non si era liberato, non era fuggito, non c'era nessuna relazione tra la mia vita e la mancanza di quel sangue, di qualsiasi centimetro cubo di sangue nel mio corpo: era solo uscito.

Uscito da un posto scuro, buio, immaginato sempre chiaramente disposto e invece caotico, ostile, diverso da persona a persona, incasinato, marcescente, insieme fabbrica e discarica. Era uscito da me, ma era entrato nell'unico luogo dove potessi vederlo.

In fondo le palpebre, la bocca, le orecchie, cosa sono se non ferite cicatrizzate? Il mio sangue può andarsene quando vuole, forse era questa la logica mancante.

Feuerbach disse che l'uomo è ciò che mangia.
Io dico che è anche ciò che sputa.