martedì, novembre 29, 2011

Ora e allora

Questo post è la storia di un pensiero.
E' la storia di un pensiero che racconta di un pensiero, e che, se non ricordo male, fa più o meno così...

In un giorno uguale a tanti altri, ormai passato come tanti altri, mi trovavo in casa; era sera, e io dovevo ancora cucinare la cena, e fare i compiti, e lavare i piatti che avevo fatto finta di non vedere per un'intera settimana, e fare l'albero di Natale - perchè , era Natale - e diciamo che non avevo molto tempo a disposizione per fermarmi a pensare; eppure l'avevo fatto.

Ho pensato a quella sera d'estate; quella sera d'estate in cui mi ero fermato sull'uscio di casa a guardare un cielo desolantemente senza stelle; non che per me rappresentasse un problema, un cielo senza stelle; perchè, come diceva qualcuno, un conto è volere, vedere le stelle e farsi guidare; un conto è saperle là in alto e lasciarle un po' fare.
Q
uella sera d'estate senza luna e dal cielo invernale, in cui avevo pensato per la prima volta a come sarebbe stato tornare trent'anni dopo nei luoghi dove ero cresciuto.
Di passaggio nel posto dove ero stato tutto tranne che di passaggio.

Se ci sarebbe stata ancora quella palma, proprio lì, afflosciata e stanca; se avrei sentito ancora nelle narici l'odore umido del portone quando è estate e tu stai uscendo con il pallone sotto braccio; se sarei stato capace di ricordare quanto era bello guardare dal terrazzo il sole che lentamente si addormentava dietro la collina.
Avrei avuto un sussulto leggendo un nome diverso sulla cassetta delle lettere?

Era Natale, nevicava, e io all'improvviso spostai una lampada da un angolo all'altro della stanza.
O meglio, spostai La lampada : l'unico oggetto che avevo trovato ad aspettarmi quando avevo comprato quella casa. Era lì da sempre; avevo confermato la sua posizione originaria in occasione della prima storica notte, e non l'avevo mai cambiata, non facendovi più caso, come del resto ci si deve comportare con un elettrodomestico, seppur fedele.
E invece, ora che l'avevo spostata, beh non era più lei : era diversa.

Così, ho pensato che forse potrebbe funzionare in questo modo anche con i pensieri, con i ricordi, con le emozioni, con i giudizi; con tutto. Niente è eterno, neanche le cose più elevate; non la tua scala di valori, non la convinzione più ferrea. Qualcuno diceva che una decisione che reputiamo definitiva è sempre presa in preda ad uno stato d'animo destinato a mutare.
L'anima muta, le decisioni restano.

Forse il trucco è non fare mai pulizia : nascondere la polvere sotto il tappeto e non spostare mai niente.

domenica, novembre 27, 2011

Alibi, VI parte

Quando entrai, andai per prima cosa al computer, per leggere il post di Matteo. Si trattava dell'ennesima parte del suo racconto a puntate, che ricordavo vagamente nella sua interezza. Mi colpì in particolare la parte in cui parlava dell'improvvisa scomparsa di un personaggio accattivante dalla storia.

Di come ci si senta traditi nelle proprie aspettative, dell'amarezza di dover abbandonare prematuramente qualcosa. Della decisione forse folle di un autore di tirarsi la zappa sui piedi, lasciandoti in compagnia di personaggi noiosi. Un retaggio del consumismo - pensai - la smania di provare, di assaggiare, sia dello scrittore che del lettore.

Mi recai a letto, avvolto in torbidi pensieri. Come collegare al post gli avvenimenti del mattino e le mie supposizioni al post stesso. In ogni caso, i dubbi se considerare o meno reali e soprattutto realmente avvenuti i fatti della prima metà della giornata restavano. Prima che potessi scendere ulteriormente nelle mie elucubrazioni arrivai in camera mia. Là, sul buio del copriletto, mi aspettava una lettera. La lettera di cui parlava mio padre, pensai.

La aprii. Dentro, un foglio A4 ripiegato in tre scritto al computer su una sola facciata. In fondo, un nome: Caterina. Senza firma. Lessi con mani tremanti d'interesse.

" Il dramma Le tre sorelle di Cechov è diviso in quattro atti. Gli atti separano episodi rappresentativi distanti tra loro nella vita delle tre, del fratello maschio e della loro cerchia di amici e conoscenti. Il dramma; perché di dramma si tratta, nonostante la manifesta volontà dell'autore di scrivere qualcosa che, invece, dramma non fosse, mi ha fatto pensare al blog I tre caballeros. Il blog che hai con Eduardo e Matteo.

Nella storia, la critica ha soprattutto evidenziato il desiderio manifestato e mai attuato delle tre di ritornare a Mosca, città originaria, visto anche come una sorta di volontà suicida inconcludente, indicando la città come quella risoluzione invocata ma, segretamente, perfino temuta.

Il pensiero che le sorelle siano donne è stato il punto di partenza per riflettere circa il collegamento che mi ispiravano. Evidentemente la somiglianza non era in senso metaforico o allegorico: inutile quindi cercare una sorella per ognuno, cercando di tradurre segni della vita reale nella dimensione dell'opera che giustificassero questo mio sentore. Mosca doveva restare la Mosca delle tre sorelle.

La mia supposizione è quindi che si tratti di una parabola, o meglio di un senso parabolico: non viene richiesta nessuna connessione, quanto una reazione. Vengono sollevate implicitamente delle domande cui si deve rispondere. Il più delle domande sono: "cosa farei se fossi in lui/lei?". La conferma di questa interpretazione sta nel fatto che, essendo personaggi di fantasia, le tre non possono certo essere consigliate e rimediare alla loro condizione disperata, distanti da Mosca e dalle loro aspettative.

La cosa più interessante è che nella mia ottica, la fine della parabola non si posava nè su di me, nè su un altro ipotetico ascoltatore, quanto su voi tre, su I Tre Caballeros. Le domande fatte dal dramma e che sentivo non erano rivolte a me o a qualcun altro, ma a voi. Andrete a Mosca prima o poi? Quando scrivi, o scrivete, ti allontani o ti avvicini a Mosca? E abbandonato dalla guarnigione con la cui compagnia lenivi i tuoi dolori, sarà sempre il desiderio di tornare a Mosca a sorreggerti? "

sabato, novembre 26, 2011

Karma Piatta

Non c'è niente di meglio del lunedì mattina.
La gente torna a lavorare dopo aver trascorso un piacevole fine settimana; al lago con i bambini magari. Tutta la gente, la gente cosiddetta normale; tutti tranne me, insomma.
Persino Fred, il mio collega coi capelli color carota, al sabato sera combina qualcosa. Freme tutta la settimana - lo vedo, lo controllo, dietro a quella scrivania di polistirolo - nell'attesa del Sabato-Al-Cinema-Con-La-Sua-Jenny.
Io li odio i fine settimana. Dovete credermi, non li sopporto.
Il week end è il trionfo dell'emarginazione sociale, rappresenta il fallimento dello Stato.

Lower Manhattan : qui c'è il più grande attraversamento pedonale del mondo.
Se non ci siete mai stati, per rendere l'idea, posso dirvi che è come una battaglia : ogni settimana, alle sette e cinquantacinque del lunedì, due enormi eserciti solcano le strisce pedonali e si fronteggiano qui.
E' come una partita di football con tantissimi giocatori; o una gara di Nascar affollata, e a piedi.
E io, il lunedì mattina - ogni lunedì mattina - io vengo qui a partecipare a questa battaglia.
Anche se partecipare non è proprio il termine adatto; mi definirei più un cronista, un osservatore. Ecco sì, io agli attraversamenti pedonali guardo le persone che mi circondano. E vi assicuro che non ho mai trovato qualcosa di più interessante.

Dovete sapere che io ascolto tanta musica; a volte, nel mio microappartamento al 32esimo piano, addirittura suono la chitarra; però soltanto a orari incivili e improponibili, per disturbare una delle mie vicine di casa, che fa partire lavatrici a tutte le ore.
Fin ora non si è mai lamentata, purtroppo.
Tempo fa, mentre parlavo con Fred - ma in realtà parlavo da solo, usufruendo solamente della persona fisica di Fred, per non sembrare troppo strano agli occhi dei colleghi - avevo sostenuto che mi sarebbe tanto piaciuto sapere cosa frullasse nella testa dei cantanti, nel momento in cui avevano deciso di scrivere una canzone che parlasse di Vita, della Vita; e pensare che c'è chi addirittura ha usato la parola Vita proprio nel titolo della canzone.
Ok, Vita è una parola che si presta abbastanza ad ogni evenienza, lo ammetto; ma non si può usarla a cuor leggero.

Ecco, questo lunedì mattina sono qui nel mio attraversamento pedonale preferito, cuffie color verdeacido nelle orecchie, e ascolto Frank Sinatra, e l'ho capito!
Ho capito perfettamente a cosa pensasse il vecchio Frank mentre scriveva That's Life, e, ragazzi, è stata veramente una goduria indescrivibile.

E' la vita, è quello che dicono le persone.
Vai alla grande in Aprile,
Muori a Maggio.
Ma io so che cambierò questo ritornello,
Quando sarò tornato indietro all'inizio di Giugno.

E' la vita, pazza come sembra.
Certe persone si prendono i loro calci,
Camminando sui sogni;
Ma non lascerò che questo mi butti giù,
Perchè questa vecchia parola continua a raggirare le persone.

Sono stato un burattino, un povero, un pirata,
Un poeta, un pedone e un re.
Sono stato su e giù e al di sopra e al di fuori
E so una cosa:
Ogni volta che ritrovo me stesso spiaccicato contro la mia faccia,
Mi tiro su e torno in gara.

Questa è la vita, non posso negarlo,
Penso di piantarla,
Ma il mio cuore non vuole questo.
Se non pensassi che sia stata come una prova,
Mi arrotolerei su una grossa palla e morirei.

martedì, novembre 22, 2011

Alibi, V parte

A fine serata Eduardo mi accompagnò verso casa.
Dopo tutto quel tempo passato a ridere con gli amici, sembrava tornato serio in un solo momento, istantaneamente. Forse avevamo semplicemente scherzato abbastanza per quel giorno. Fu lui a rompere il silenzio.

"Ho sentito che Matteo ti ha parlato di qualcosa oggi, si trattava del blog?"
"Sì - sospirai - mi ha detto che ha postato. Qualcosa a cui pensava da molto tempo."
Eduardo tirò un calcio a una lattina sdraiata, stancamente, facendola rotolare su se stessa mentre ci precedeva.
"Il blog...il blog...tu ci pensi mai al blog?"
"Se ci penso Edu? Insomma..." Mi ritornò in mente l'Eduardo che avevo visto quella mattina, minuscolo ed aggrappato alla 'a' finale di Salvia. Niente sembrava essere più assurdo di quella visione ripensandoci allora.

"...sì, ci penso ancora al blog. Allo scrivere in generale veramente. Anzi, direi che pensò di più allo scrivere proprio quando non scrivo." Il suo silenzio meditabondo mi invitò a continuare. "Ad esempio, ora ho in mente un paio di cose. Un racconto ambientato in una società in cui non esiste una parola per indicare le donne e a cui quindi ci si riferisce solo come non-uomini. Questo genera una serie di dubbi sull'effettiva esistenza delle donne, che per tutta risposta indicono uno sciopero del sesso...tipo Lisistrata."

Non sembrò molto entusiasta della risposta. La cosa mi ricordò quel personaggio de La ricerca del tempo perduto che prova vari argomenti come altrettante chiavi, per penetrare nell'interesse del suo interlocutore. Leggermente, saggiando appena se la porta è stata aperta di volta in volta, smettendo subito di forzare la mano non appena si accorge che è ancora chiusa.
Provai ancora:

"Avevo anche in mente una storia in un futuro prossimo. Le automobili invece di rotolare strisciano su una specie di gomma vischiosa e la gente smette di avere paura dei serpenti."
Rimase in silenzio, come incredibilmente amareggiato. Arrivai persino a temere di averlo, in qualche modo, offeso. Quando arrivammo sotto casa mia un filo di vento accompagnò la sua ultima frase:

"Leggi il post di Matteo, non leggerlo, fai come vuoi. Non importa ormai, non importa più. Ognuno per sé. Anzi, peggio di ognuno per sé. Se esiste qualcosa di più solitario della solitudine lo scopriremo. Purtroppo, per noi non c'è nessun addio, stasera come per i giorni a venire: ognuno a casa propria."

Lo seguii con lo sguardo fino a che non svoltò l'angolo. Mi sembrò addirittura che ridesse. Una risata che metteva i brividi.

domenica, novembre 20, 2011

Alibi, IV parte

Risposi, era Eduardo:
"Dove sei? Vieni qui, non c'è tempo!"
"Non c'è tempo? Per cosa? Cosa?!"
Avevo urlato e Francesco e mio padre mi guardarono sbigottiti, mentre Eduardo rispondeva alla mia domanda.
Buttai giù.
"Il compleanno di Michele - dissi - non ci sono a cena"

Arrivai al bar di piazza Xxxxxx con dieci minuti di ritardo, c'erano proprio tutti.
Notai subito Matteo ed Eduardo, quelli che sarebbero dovuti essere rispettivamente avvolto nelle bende ed alto pochi centimetri. Erano invece perfettamente normali, o almeno tanto normali quanto gli altri.

Ci conoscevamo, noi tre, ormai da molti anni. Nel lontano 2xxx avevamo anche aperto un blog insieme: "I tre caballeros". Sul blog scrivevamo i nostri scherzi, saggi, racconti, a volte perfino poesie. Vedendoli, più che pensare alle loro misteriose apparizioni, essendomi ormai convinto che l'uomo all'ospedale dovesse essere proprio Matteo, ripensai al blog e al fatto che ormai non scrivevo da mesi.

La serata fu molto divertente: come al solito finimmo per ri-raccontarci le solite cose, che tutti conoscevamo già, eppure la cosa ebbe, almeno per me, una magica proprietà distensiva. C'era qualcosa di atavico nella nostra tradizione orale, nella nostra epica di provincia capace di arricchirsi in modi misteriosi, selezionando con criteri incomprensibili gli eventi e i personaggi degni di essere salvati per poi riproporli a quelle stesse persone che li avevano vissuti direttamente.

Circa a metà serata, Matteo mi prelevò per parlare in disparte. Mi ero talmente astratto dagli avvenimenti della giornata che non pensai nemmeno che potesse parlarmi a riguardo di quella stanza 313 dell'ospedale Xxxx. Infatti non parlammo della stanza e del suo occupante.
"Ho postato, ci ho messo un sacco ma alla fine ho postato."
Annuii, addentando un pezzo di pizza.
"Solo che era una bozza, per cui lo ha pubblicato con la data della bozza. In pratica è venuto fuori prima del tuo ultimo."
"Ho capito, ho capito...- risposi con la bocca piena - lo leggerò, non sarà un gran problema trovarlo!"
Tornammo ai festeggiamenti del nostro amico.


martedì, novembre 15, 2011

Alibi, III parte

Quando me ne andai, finito l'orario delle visite, dovetti concludere di non aver capito niente.
Come mi era successo parlando del tempo con Eduardo, ebbi la chiarissima sensazione di conoscere perfettamente qualcosa. La certezza che sentivo era che le due persone fossero collegate tra loro. Era come, pensandoci bene, avevo sempre saputo: Eduardo e Matteo, non uno dei tanti Matteo ma uno in particolare, si conoscevano in effetti da ben prima del mio arrivo.

Un uomo minuscolo ed uno muto e avvolto dalle bende andavano comunque collegati, per trovare un senso nella faccenda.
Il punto, tuttavia, era proprio questo: ritornando in macchina a casa portai al massimo la traccia estiva suggerita dalla radio e pensai che io di quella storia potevo anche non volerne sapere di più.

In più, il mio timore era quello di poter trovare soluzioni più vicine alla verità che alla realtà. I miei amici sfidavano le leggi della fisica e se avessi seguito queste logiche tanto valeva rifarsi alla fantascienza de L'uomo invisibile e Tre millimetri al giorno. Di questo passo, pensai, presto avrò paura di imbattermi nel mostro della laguna Nera o nell' uomo-mosca.

Fermo ad un semaforo, riuscii finalmente a perdere il filo dei miei pensieri nella musica e a tranquillizzarmi. Rientrai a casa in questo stato d'animo di precaria serenità.
Una voce mi raggiunse appena varcata la soglia: "Filippo? E' arrivata una lettera per te, l'ho messa in camera tua."
Seguii la voce per trovare mio padre in salotto. Stava seduto sul divano e teneva in braccio un bambino piccolo, di un anno al massimo.
Prima di qualunque altra cosa, gli chiesi chi fosse il bambino.

"Ma come," rispose "è tuo fratello Francesco!" E contemporaneamente fece sobbalzare il bambino sulle ginocchia. Francesco rideva.

Mi fratello Francesco, di due anni più grande di me, si presentava ora come un bamino di pochi mesi. E tutto sotto lo sguardo di mio padre, che trovava la cosa come la più naturale del mondo. Fu per me la fatidica ultima goccia: sentii la collera per questi inspiegabili avvenimenti risalire dentro di me come lava in un vulcano.
Stavo per esplodere quando, improvvisamente, il mio cellulare si mise a squillare.

Strano, pensai in un baleno, non era silenzioso?

sabato, novembre 12, 2011

Capitolo 18) Apnea

La scia luminosa di Udine si allontana sempre più.
E' una notte fredda e piena di stelle, il che non suona bene come una notte buia e tempestosa, ma va bene lo stesso.
Mentre sono a penzoloni nel vuoto, nel retro del Pick Up di Merlo, il mio pensiero vaga in ogni direzione, probabilmente per gettarmi alle spalle quanto appena accaduto.

Ammetto che avrei tanto voluto avere un quaderno come quello di mia madre, in cui annotare le frasi dei romanzi che mi colpivano in modo particolare. Certo, piano piano i quaderni diventavano due, tre, trenta : un'impresa per cui era necessaria una certa costanza.
Forse avrei desiderato possedere la costanza di mia madre, e non il quaderno.

Merlo guida silenziosamente, quasi dolcemente; e questo mi stupisce molto, considerando chi ha di fianco sul sedile-passeggeri. O meglio, chi non ha; chi non avrà mai più al suo fianco.
Sento la radio gracchiare un pezzo vagamente country, flebile come se fosse molto lontana da me, e non nell'abitacolo.

Mi lascio andare, in fondo il peggio è passato; sono con mia sorella in un bel campo di fragole, rossissimo; la sto rincorrendo, sembra proprio che lei si diverta, almeno fino a quando non mi perde di vista. Sono già lontano, percorro a piedi nudi un lungo trampolino : quanto sarebbe stato bello tuffarsi in quel mare di tempera e olio.
E improvvisamente mi torna in mente Deb.

"Ehi Signor Merlo, ferma subito quest'auto!" - grido sbattendo i pugni contro la griglia di ferro che ci separa.
Merlo non mi fa attendere, arrestando senza scossoni il furgone nel mezzo della strada deserta; dopodichè si volta a guardarmi, più incuriosito che intimorito.
Merlo ha il volto di chi è al crocevia della vita : un ingombrante passato appena chiuso in valigia, un futuro che non avrà propriamente la forma di una valigia.
"Dobbiamo tornare a prenderla".

Pensate a un Personaggio grandioso, di un film o di un libro; un Personaggio che è stato appena inserito nella Storia, ma che veramente fin dall'entrata in scena, fin dalla sua prima battuta, vi ha fatto esaltare; un Personaggio a cui avreste voluto stringere la mano e dire : "finalmente sei arrivato tu a dare un senso a questa pellicola!" o "piacere di aver letto di te, Personaggio!".
Fatto? Bene. Ora pensate ai rari casi in cui un Autore toglie dalla circolazione anzitempo quel Personaggio; non è rilevante in che modo: soltanto lo porta via da voi. Pensate alle sue potenzialità inespresse, alle speranze brutalmente disattese, al senso di frustazione, all'amarezza, alla rabbia animalesca, ignorante e cieca che monta in voi.

Ecco.
Ora potrete ben capire il mio stato d'animo nel momento in cui Merlo è entrato nella stanza e ha ucciso Gòto.

martedì, novembre 08, 2011

Alibi, II parte

Stavo per replicare quando il suono del coltello contro il tagliere mi costrinse a tornare con lo sguardo alla mia mansione. Dopo aver constatato che non mi fossi tagliato un dito, ritornai a cercare il mio amico, solo per constatare che non c'era più.

In quel preciso istante, prima che potessi chiamarlo, rientrò mia madre.
"E' per te, ma non so chi sia"
Mi stava in effetti porgendo il telefono, schermando con le mani il microfono. Non mi ero assolutamente accorto che avesse squillato, ma lo misi ugualmente all'orecchio.

Una voce di donna parlò prima ancora che potessi dire "Pronto?":
"Venga all'ospedale Xxxx, stanza 313. Se parte ora, può ancora farcela. Con l'orario delle visite intendo. E' molto importante."
Buttò giù, senza che avessi la possibilità di rispondere.
Mia madre era di nuovo intenta nelle sue occupazioni, immersa. Quando mi alzai, fui sorpreso che non chiedesse chi avesse chiamato, o che cosa avessero da dirmi.

Senza fiatare presi l'auto e andai all'ospedale Xxxx. Dave Brubeck uscì dagli altoparlanti non appena girai la chiave e non mi abbandonò fino a quando non ebbi parcheggiato e spento. Come sapessi che fosse proprio lui a suonare, non me lo seppi spiegare. Sembrava non esserci nessuno in radio a commentare, a riempire gli spazi tra un brano e l'altro.

Raggiunsi la stanza 313 senza troppe difficoltà, chiedendo informazioni solo un paio di volte. Dentro c'erano un'infermiera e un uomo, seduto a letto, completamente avvolto dalle bende. Nemmeno la bocca era scoperta.
L'infermiera mi si avvicinò, parlando piano e molto lentamente.

"Lei deve essere Filippo, è nel posto giusto: la stanza 313 è questa. La ringrazio per essere venuto. L'ho chiamata per sua esplicita richiesta - indicò il bendato - so soltanto che il suo nome è Matteo e da quando è qui questa è stata l'unica cosa che ha chiesto. Ora dorme, ma può restare qui aspettando che si svegli. La saluto."

Ancora una volta l'infermiera non mi lasciò il tempo di rispondere, nemmeno di ringraziare. Sgattaiolò via attaccando subito a parlare con delle persone che passavano davanti alla 313 in quel momento. Sembravo destinato a non dire mai la mia battuta.
Mi sedetti sull'altro letto e rimasi in silenzio accanto all' addormentato.
Poteva anche essere colpa delle bende, ma non mi sembrava corrispondesse a qualcuno dei Matteo che conoscevo.

sabato, novembre 05, 2011

Alibi, I parte

Quando non sto tanto bene trasformo sempre la mia stanza in un piccolo zoo di carta.
Gli origami del raffreddore del sono molti, ma il più frequente è senza dubbio quello che io chiamo Cigno Sgraziato, o Cigno Scoordinato, che consiste nel soffiarsi sonoramente il naso un'unica volta in un fazzoletto ben dispiegato per poi appallottolarlo senza criterio e gettarlo lontano.

Era proprio in questa condizione di artista involontario che mi trovavo, il mattino del xx novembre xxxx, nella casa dei miei genitori a Xxxx.
Diversamente dal consueto stavo dando una mano in cucina, tagliando con malagrazia alcune patate.
Fu quando mia madre si allontanò per andare in qualche altra stanza a fare qualche cos'altro, che accadde l'imponderabile.

Infatti, mentre ero per così dire intento nel mio lavoro, mi sentii chiamare più volte da una vocina minuta. Alzato lo sguardo vidi Eduardo, ritto in piedi sul bordo interno dell'etichetta scritta a mano di un arbanella in vetro, piena di foglie. Stava lì, in equilibrio sul bordino dell'etichetta, reggendosi con una mano alla a di "Salvia" e facendo con l'altra dei cenni verso di me.
La sua grandezza non superava quella del mio pollice.

"Ehi! Ou! Dico a te!"
"Eduardo?"
Sentendo che lo avevo riconosciuto e che ormai avevo la sua attenzione, si fece più spavaldo:
"Eduardooh? Ooohooo e chi sennò, non essere cretino. Avanti, che è importante. Ascoltami, e ascoltami bene, perché non ho assolutamente tempo da perdere"

In qualche modo seppi, dentro di me, che stava blandamente mentendo. Il tempo era qualcosa di sommariamente definito, che manteneva mia madre nell'altra stanza, lontana dalla conversazione con la miniatura del mio amico.

"Ma...cosa ci fai qui? Ci siamo visti ancora ieri, perché sei così piccolo?"
"Domande, sempre domande. Non ti accorgi quanto sia privo di senso fare domande in un caso come questo, in cui ci sono talmente tante cosa da chiedere da renderle tutte minimamente interessanti? Ad esempio perché non mi chiedi perché mi trovo proprio presso un barattolo di salvia? Salvia divinorum certamente, senza alcun dubbio, viste le foglie..."
Così dicendo rivolse lo sguardo indietro, verso l'interno del barattolo, dove io potevo vedere solo lo sfondo di carta dell'etichetta. 
La sua risposta confermava quanto il tempo, in realtà, non fosse un problema.

mercoledì, novembre 02, 2011

Il sorriso del papiro

Per chi è cresciuto a Christian Jacq e Playmobil può non essere facile parlare di Antico Egitto.
Queste le ragioni: Christan Jacq scriveva solo di quello ma non esistevano Playmobil dell' Antico Egitto.
In più nell' Antico Egitto non esistevano nè Christian Jacq, nè i Playmobil; e molto probabilmente non si chiamava neanche antico Egitto, ma semplicemente Egitto. E tutti portavano la parrucca.

Un trauma: un cazzo di trauma infantile. Si avete letto bene, ho scritto cazzo, come piace agli americani. Perchè simulare con dei cow boy la vita nell' Antico Egitto è peggio dell' incesto e del complesso di Edipo messi insieme.
Voglio pensare che la mancata commercializzazione di Playmobil dell' Antico Egitto sia stata frutto del fottuto caso (fottuto, come piace agli americani), di scelte di mercato, della guerra del Vietnam, di Billy Clinton, o tutt' al più di Monica Lewinski; come avrete notato tutte cose che piacciono agli americani.
Un inciso: per chi non lo sapesse Monica L. è la bocca che l' ha succhiato al presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, nella stanza orale. Per chi non lo sapesse gli Stati Uniti sono la ragione per cui oggi si scrive cazzo, si mette la punteggiatura senza criterio e si fanno lunghe liste di cose che non centrano nulla fra loro; fanculo alla grammatica. Come piace agli americani.

Monica Lewinski, senza dubbio ebrea, con quel cognome. E' vero non si può dire, e se non si può dire non vale neanche la pena di pensarlo: è successo anche con "buon appetito"; si, vi ricordate, una volta lo dicevano tutti prima di mangiare, poi un giorno qualcuno, si dice dopo un congresso di comunione e liberazione, ha iniziato: "non è permesso dirlo" e piano piano abbiamo anche smesso di pensarlo.  Il controllo delle menti, soverchia dottrina dei meno illuminati fra gli uomini.

Dunque che cosa voglio pensare? Che la mancata produzione di Playmobil dell' Antico Egitto sia stata semplicemente una non scelta. Questo per cominciare a parlare serenamente di Antico Egitto.

Non mi passa neanche per l' anticamera del cervello (sic) che si sia trattato di un complotto giudaico massonico per turbare i bambini e farli diventare una massa di gaudenti omosessuali facilmente governabili; in fondo a me Walt Disney mi è sempre stato simpatico. Topolino mi ha sempre fatto godere come un riccio nella mia masturbazione infantile; oh merda. Preferisco non pensarci: chiamatelo quieto vivere.
Alle magiche scollature e al paniere di Jessica Rabbit.
Preferisco non pensarci.
Alle squadre e ai compassi infilati nel culo di Indiana Pipps.
Preferisco non pensarci.
Al castello d' oro della Sirenetta con le torri a forma di fallo.
Preferisco non pensarci.
Alle pere straordinarie che si vedono dopo il decollo di Bianca e Bernie sul gabbiano.
Preferisco non pensarci.
A Lady Marian, la volpe più fica della storia.
Preferisco non pensarci.
Per la cronaca pare che Tanda, prima di incularsi il suo gatto, avesse visto alla tele il gatto con gli stivali.
Preferisco non pensarci.

Come averete certamente capito, per me non è affatto facile parlare di antico Egitto senza pensare a Geremia, il padrone del vecchio saloon, a Satin, cantante e cortigiana e a tutti gli altri ragazzi che dormono sulla Collina di Spoon River.
Ho deciso di farlo per voi e per i vostri orrendi figli; non compiacetevi se cantano la sigla della Bella e la Bestia.

martedì, novembre 01, 2011

dubbi circa l'utilizzo dei superlativi per iscritto

Sul momento rimasi colpito. Le parole mi raggiungevano con una lentezza esasperante e nel tentativo di interrompere il discorso misi dei punti dove non c'erano.
Ma fu andando verso la stazione che, ripensando all'accaduto, mi sentii veramente strano.

Quella che inizialmente, durante la vicenda stessa, si era presentata come una lontana sensazione di dèjà vu ora emergeva mollemente da una parte alta del collo. C'erano dei volti nell'impiastro del mio pensiero, cui erano etichettate le stesse frasi e gli stessi gesti. Decisi di aver già vissuto una simile esperienza.

Non riuscii però a decifrare il mio ruolo. Questa volta ero stato spettatore, ma non seppi se quanto ricordato fosse accaduto a me in prima persona o meno. Come confondendo l'idea di essere stati in un luogo per averlo visto in un quadro, le mie percezioni si aggrappavano a pochi dettagli che confermavano la realtà dei miei ricordi.

Quelli che mi si presentavano erano volti di persone reali, che potevano aver davvero fatto ciò che attribuivo loro, anche se il mio dubbio inquinava la ricostruzione degli eventi.
Una bazzecola, un gesto da nulla, una manifestazione educata della forza di una personalità ripetuta con le modalità di quella che, collegando tra loro gli eventi, mi dava l'impressione di essere una formula magica.

Nel linguaggio della nostra elaborata umanità manca forse il richiamo ad imprescindibili istinti di base: il rito sopperisce alla mancanza?